trans
Ciò che dice la gente
di amoreandrogino
06.07.2015 |
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"Non solo mia madre ma anche mio padre che non poteva accettare il mio cambiamento perché da noi si dice che è meglio un figlio morto che un figlio “ricchione”..."
“Che disgrazia” commentavano tutti mentre partivo per il Servizio militare. Scene da film, alla stazione: mia madre che piangeva sulla spalla di mia moglie come se andassi al patibolo mentre mio padre cercava di consolarla dicendo che per me, dato il mio carattere troppo debole, poteva essere un’esperienza utile, altri familiari e amici sembrava seguissero un corteo funebre e, dietro a tutti, mio zio avvocato che fumava dal naso perché non era riuscito a farmi avere l’esenzione dal servizio militare, nonostante tutte le conoscenze che aveva in Tribunale. Ma per tutti quelli che mi avevano accompagnato al treno, la vera sciagura non era tanto quella di dover partire per la naia, quanto quella di partire di martedì. Né di venere né di marte non si sposa e non si parte, né si dà principio all’arte! A quel tempo c’era ancora la leva obbligatoria e poco importava che la mia domanda di esonero non fosse stata accolta giacché la dispensa veniva accordata solo ai maschi sposati che avevano almeno un figlio – e a noi figli non ne erano venuti ancora -, la vera disgrazia era che la cartolina del precetto imponeva di partire quel dato giorno, e quel giorno era appunto martedì: ne sarebbero venute certo le peggiori sventure perché i detti popolari non possono sbagliare! Tutto il resto erano dettagli marginali: il timore di perdere il posto in Banca ma anche il fatto che mia moglie dovesse restar sola per più di un anno, perché la mia famiglia avrebbe provveduto al suo sostentamento e non le sarebbe mancato nulla. (Per ciò che non era il sostentamento materiale, tutti si erano accorti che c’era qualcosa che non andava tra noi, sebbene nessuno avesse osato chiedere nulla e nessuno pensava di dover intervenire: come si dice, tra moglie e marito non mettere il dito!)
Si è ben capito che io vivevo in una comunità dalla mentalità ristretta: regole precise che non potevano essere trasgredite perché tutto era stabilito dalla tradizione. Si faceva così perché si era sempre fatto così.
Una delle regole principali era quella che i maschi, anche se fanno sempre comunella tra loro, al bar o sul lavoro parlando di sport e di politica, prima o poi si devono sposare. Il termine single non esisteva! L’uomo poteva fare lo scapolone, senza cappio, fino a quarant’anni, ma questa era la tipica eccezione che conferma la regola e le ragazze, se non si sposavano, restavano “signorine” anche a ottant’anni: zitella o nubile che, come spiegava mio zio, viene dal latino “nubenda” che significa “che si deve sposare”! L’usanza, da noi era quella di sposarsi abbastanza presto, a meno che non si frequentasse l’università e si doveva prima da prendere la laurea. Matrimoni precoci, quasi sempre, anche perché senza passare prima dal Prete, non c’era niente da fare con le ragazze e, se si riusciva a fare qualcosa nonostante gli occhiuti controlli di padri e fratelli, poi si doveva andare di corsa dal Prete per “riparare”.
Io mi ero sposato a ventun anni, completamente vergine, con una lontana cugina e tutti dicevano che eravamo fatti l’uno per l’altra, anche se lei era diventata quasi milanese perché si era trasferita al Nord con la famiglia. Da piccoli giocavamo sempre insieme e anche dopo avevamo continuato a frequentarci durante l’estate perché i suoi genitori venivano a fare le vacanze al mare, ogni anno, prendendo in affitto una casetta vicino a dove abitavamo noi, un’abitudine che non avevano mai interrotto. La regola matrimoniale che imperava nella nostra comunità era quindi rispettata “moglie e buoi dei paesi tuoi!”: quello che conta è il sangue, non la zona di residenza. Un matrimonio normale, quindi, anche se avevo sempre manifestato poco interesse per le ragazze, a differenza di tutti i miei coetanei che pensavano sempre a quella cosa là.
Le ragazze non mi attiravano forse perché ero molto timido e introverso e, del resto, anche con i miei compagni non legavo abbastanza, soprattutto perché non condividevo i loro atteggiamenti aggressivi che sfociavano, spesso, nella violenza gratuita. Non avevamo quasi nulla in comune, con i miei coetanei, a me non piaceva giocare a pallone e, quando eravamo più piccoli, non volevo mai andare con loro a caccia di lucertole, forse per una istintiva riluttanza a togliere la vita a un essere che respira e che è capace di generare quelle graziose lucertoline che corrono sbattendo la codina di qua e di là. Me ne stavo spesso da solo: fin dall’adolescenza mi piaceva leggere, studiare e soprattutto disegnare, la mia vera passione.
Ero un bravo ragazzo educato e non cercavo di scappare da casa standomene sempre per strada e poi, a differenza di loro, non litigavo mai con mio padre, di cui accettavo l’autorità e ammiravo la fermezza, L’unica volta che avemmo un contrasto fu quando, finite le medie, mi volli iscrivere all’Accademia di Belle Arti, una scuola che lui considerava poco utile e, soprattutto, poco virile! Ma poi tutto si era riaggiustato, dopo il diploma, quando fui assunto in banca (grazie alle conoscenze di mio zio!) e non pensai più di intraprendere una carriera artistica.
Il lavoro in banca era un po’ noioso ma sicuro e, a differenza di ciò che alcuni dicevano, non avrei perso il posto andando a fare il servizio militare. Per me non sarebbe cambiato nulla!
E invece cambiò tutto, durante la naia, e successe qualcosa che sconvolse completamente la mia vita, anche se il tempo passato sotto le armi durò molto meno del previsto perché dopo tre mesi, grazie agli intrallazzi di mio zio, mi fu concesso il precongedo. “Licenza illimitata in attesa di congedo” com’era denominato quel provvedimento nello strano linguaggio usato in quella struttura autoritaria separata dal mondo civile, dove poteva accadere di tutto. E dove tutto mi era accaduto! Oggi non mi va di ricordare quel periodo della vita in caserma anche se lì io avevo scoperto la mia vera identità, cosa di cui dovrei essere felice. Ma l’avevo trovata, la mia identità, passando attraverso un’esperienza terribile e umiliante per la violenza e la sopraffazione che sempre si nasconde tra le pieghe di una istituzione autoritaria come il sistema militare.
Faceva freddo quella notte in caserma, e un mio compagno di camerata che aveva sempre avuto un atteggiamento amichevole e protettivo verso di me venne a farmi compagnia nel mio letto. La camerata odorava di freddo e di muffa e lui, senza dir nulla, mi abusò contro la mia volontà. Mi violentò mentre piangevo senza la forza di ribellarmi. Io subivo la sodomizzazione quasi in silenzio perché avevo paura che gli altri potessero sentire, ma forse anche perché il mio corpo non si voleva ribellare veramente! Ripensandoci, ancora oggi non riesco a capire perché mi sentissi in colpa, in quei momenti, come se la responsabilità di ciò che stava accadendo fosse mia, come se avessi provocato io quell’irrefrenabile impeto sessuale, anche se non avevo fatto assolutamente nulla e non avrei mai immaginato che potesse accadere quello che stava accadendo. Ma soprattutto non riesco a capire come sia stato possibile che, mentre avevo paura, dolore e umiliazione, provavo anche un piacere fortissimo, fino ad avere l’orgasmo.
Un orgasmo diverso da quelli che avevo conosciuto fino ad allora, prima con la masturbazione e poi con mia moglie. Non provai una scossa e un getto di piacere, ma sentivo onde progressive di godimento che si concentravano e si estendevano nella mia carne; non la sensazione di una esplosione, come una fontana che zampilla improvvisamente dopo aver gorgogliato per qualche secondo, ma una vibrazione potente, come un mare in tempesta, che scuoteva tutto l’interno del mio corpo. Mi immaginai che quello doveva essere il modo con cui godono le donne, mi avevano detto che l’orgasmo femminile che era meno intenso ma più lungo di quello maschile e, mentre godevo con un grido soffocato implorando “ancora, ancora!”, e ansimando, mi sembrò quasi di essere diventato una donna.
Non chiusi occhio, quella notte, e mi resi conto che quella era la mia vera natura, di cui non potevo vergognarmi, anche se era successo quello che era successo, ma il giorno dopo non fu così facile accettare la mia nuova condizione. Dopo aver marcato visita perché avevo fatto tardi all’alzabandiera, senza dire all’ufficiale medico che cosa mi avevano fatto, o avevo fatto –sebbene per un istante stavo per confidarglielo! - rientrando in camerata mi resi conto che tutti avevano saputo, e ciò mi fece sentire un profondo sconforto: mi vergognavo anche se per me era normale sentirmi donna, ma sentivo la mortificazione di trovarmi in una condizione “diversa” davanti agli altri che mi deridevano.
Avrei voluto scappar via ma poi, quando altri commilitoni mi chiesero di venire nel mio letto, non seppi dire di no. E piano piano provavo sempre più il desiderio di farlo, ogni notte, come se fossi una ninfomane o una prostituta mandata lì per soddisfare i bisogni sessuali di tutta la camerata.
Certo, la rivelazione della mia natura femminile sarebbe stata molto più serena se vi fossi arrivata senza subire violenza, se il mio guscio esteriore, l’aspetto maschile che non mi apparteneva veramente, mi fosse stato tolto lentamente, e non strappato con brutalità e sopraffazione. Sarebbe stato bello se la mia metamorfosi fosse avvenuta come per un serpente in muta che sguscia fuori dalla vecchia crosta con la sua nuova pelle morbida, o come la crisalide che si libera dal bozzolo per diventare farfalla. Ma anche se la metamorfosi era avvenuta con violenza, io mi ero accettata tranquillamente come femmina e ora mi sentivo addirittura orgogliosa di essere donna.
Poi però, con l’arrivo del precongedo, mi resi conto che non potevo tornare a casa come se niente fosse successo. A casa avrei dovuto nascondere il mio segreto e avrei provato vergogna per la mia nuova condizione. Avevo paura che i miei genitori non mi avrebbero accettato come “figlia” e mi sentivo in colpa soprattutto verso mia moglie, a cui sentivo di voler bene come a una sorella, e che ora, invece di un marito, si sarebbe trovata ad avere un’amica. E mi sarei vergognato, o dovrei dire vergognata, incontrando i miei vecchi conoscenti che certamente si sarebbero accorti del mio cambiamento e mi avrebbero disprezzata o derisa.
Decisi allora che non potevo vivere nel posto dove tutti mi conoscevano come maschio e mi inventai che sotto le armi avevo conosciuto una persona di Roma che mi avrebbe fatto avere un lavoro in un’agenzia di pubblicità, dove avrei potuto esprimere le mia vena artistica. Tutti dicevano che era una follia, ma io partii lo stesso, dopo un paio di settimane. Nessuno che mi fece gli auguri e solo mia madre mi accompagnò al treno: lei aveva capito e piangeva mestamente.
Mentre salivo in carrozza mi abbracciò dicendomi tra le lacrime: “Trova la tua strada, figlia mia!”
Non sono ritornata indietro, mai più, anche se desideravo molto riabbracciare i miei. Non solo mia madre ma anche mio padre che non poteva accettare il mio cambiamento perché da noi si dice che è meglio un figlio morto che un figlio “ricchione”. Non sono ritornata indietro anche se sono sicura che oggi nessuno mi riconoscerebbe, perché cinque anni di estrogeni mi hanno completamente trasformata, regalandomi un corpo rotondo, un piccolo seno naturale e una pelle morbida; la barba, che era già poca, è quasi scomparsa, lasciando solo una piccola peluria sul viso, mentre non si è indebolita la funzionalità del membro perché sono sempre stata attenta a non eccedere nel dosaggio degli ormoni.
Ma non è stato facile ricominciare tutto da capo. Arrivata a Roma, ho avuto la buona sorte di trovare subito un lavoro in un negozio di parrucchiere: pochissimi soldi e una camera squallida in una casa di periferia, ma non ho dovuto passare per la prostituzione, com’è capitato un po’ a tutte quelle che si sono trovate nella mia condizione. Poi ho avuto ancora la grande fortuna di fare amicizia con una ragazza che praticava i tatuaggi e che, dopo aver visto alcuni dei miei disegni, mi ha suggerito di seguire un corso per prendere la licenza sanitaria e andare a lavorare con lei. Oggi sono una professionista molto ricercata, al punto che ho potuto prendere una casetta in affitto tutta per me e sento di essermi pienamente realizzata, anche potendo esprimere la mia vena artistica.
Dovrei dire che non mi manca nulla: frequento gente diversa, di tutti i sessi, e conosco uomini di tutte le età con cui scambio liberamente il piacere fisico, in allegria e senza problemi. Passo interi pomeriggi a disegnare e a dipingere e molti mi dicono che ho un vero talento. Forse mi manca solo l’amore con la “A” maiuscola, ma non so se sia possibile, per una trans, avere un amore vero, e così mi accontento di amori mal corrisposti, spesso ricambiati nella menzogna. Talvolta mi accorgo che i miei “fidanzati”, anche se giurano che farebbero follie per me, si vergognano di farsi vedere in giro con una come me. Una “diversa”, come dice la gente!
Mia madre telefona spesso, anche se mi sono accorta che lo fa di nascosto da mio padre: stasera mi ha telefonato mentre mi stavo preparando per andare al Gender, un locale dove mi esibisco nella lap dance. Ballando mi eccito molto e una sera che ero un po’ alticcia mi sono esibita in un numero speciale che ho chiuso col nudo integrale, lasciando tutti esterrefatti: ammirati (o spaventati?) per i miei attributi maschili in evidenza! Potrei chiedere di più? No, anche perché il “di più” non saprei dove metterlo: le mie giornate sono già piene di cose, di impegni e di allegria.
Oggi ho abbozzato un disegno stranissimo: di solito ritraggo dei volti o composizioni con volti, ma questa volta ho sentito l’esigenza di mettere un orologio al centro di un immagine con figure umane sfuggenti, tra le quali il mio volto e la mia figura, per esprimere la persistenza del tempo nella memoria. Come Salvator Dalì con i suoi orologi morbidi.
Molti ritengono che il tempo, scorrendo sempre in avanti, consumi inesorabilmente la nostra vita, cose se questa fosse data solo dal tempo che resta da vivere e non anche da tutto il tempo che abbiamo vissuto. Con questo disegno - le lancette dell’orologio ferme che possono inchiodare il tempo, valorizzando ogni singolo istante - io voglio dire che sono ciò che ho avuto nel passato e ora posso donare agli altri, sono ciò che vorrei ancora avere in futuro, per offrirlo a tutti quelli che non sanno avere desideri e sogni.
La mia vita è anche il mio passato e io non rinnego nulla, nemmeno il dolore, e non ho rimpianti: con questo disegno sento di esprimere il mio vissuto percepito come una frazione del tempo che non c’è più, ma che permane nella mia coscienza attraverso i miei desideri e con le mie speranze. Le lancette ferme dell’orologio, quindi, raccontano il mio presente che contiene tutto il mio passato e tutto il mio futuro, proprio perché il tempo non passa mai del tutto, ma racchiude sempre una piccolissima parte di quello che potrà accadere. Solo con la morte il tempo finisce per sempre e si può dire che tutto quello che è stato non c’è più. Non ci sarà mai più. Inesorabilmente, non si può tornare indietro nemmeno per un istante. Come mio padre, che non c’è più.
Se n’è andato confidando a mia mamma, con l’ultimo sospiro, che avrebbe voluto rivedermi prima di morire. Mi voleva riabbracciare, ma è successo tutto all’improvviso e io l’ho saputo solo quando non potevo fare più nulla, se non andare alle sue esequie.
Durante il funerale tutti mi guardavano come una bestia rara. O semplicemente come una bestia, ma a me non importava nulla di ciò che potesse pensare la gente. Anche il prete mi guardava con disprezzo e, se fosse stato per lui non mi avrebbe fatto entrare in Chiesa perché, essendo “diversa” senza nascondermi, rappresentavo un pericolo per la comunità e per le istituzioni. Pure lui è omosessuale, lo sapevamo tutti, ma lo faceva di nascosto, come sembra normale in una piccola comunità di persone perbene che vivono nell’ipocrisia.
Le parole che il prete diceva davanti alla bara mi sfioravano appena, così come non mi toccavano le espressioni di condanna della gente e il loro modo di guardarmi con imbarazzo.
Quegli sguardi e quelle parole scivolavano via sulla mia pelle perché, in quel momento, la mia testa era altrove e mi sentivo orgogliosa di ciò che ero: stavo scrivendo mentalmente una lettera a mio padre, per ringraziarlo delle parole che aveva detto a mia madre in punto di morte.
Caro babbo.
Quando la mamma rimase incinta di me, tu forse desideravi una figlia femmina. L’ho pensato molte volte quando mi portavi a giocare sulla spiaggia o al parco e vedevo che guardavi con tanta tenerezza le altre bambine, commentando talvolta che le femminucce sono più affettuose dei maschietti. Ma all’interno di quella comunità dove sono nato, apparentemente maschio, si dice che quando nasce una femmina, il padre ha sprecato una notte! Uno dei tanti stupidi detti popolari, un luogo comune, ma tu non potevi sapere che i desideri sono più forti dei luoghi comuni: hai dovuto mostrare di essere fiero di me, come tutti gli altri padri, perché ero destinato a perpetuare il tuo cognome, e anche orgoglioso del mio bel pisellino, senza sapere che non l’avrei usato con le donne, ma con quelli che vogliono assaporare la mia ambiguità. Forse desideravi una figlia femmina e di nascosto ti disturbava di non essere come tutti gli altri che volevano il maschio.
Anche in seguito ti vergognavi un po’ di me, quando per esempio ti vennero a dire che a scuola non facevo a botte con i miei compagni, e certamente non potevi essere orgoglioso che io mostrassi spiccate tendenze artistiche e pochissimo interesse per lo sport e per tutte la altre cose “da maschio”. Ma ti mi volevi molto bene e hai accettato sempre tutto da me, anche se non hai potuto “accettare me” come ha fatto la mamma.
Che ora accarezza i miei capelli biondi, anche se lei me li ha fatti scuri, neri neri come i tuoi.
Oggi, dopo tanto tempo io, in coscienza, dovrei sentirmi più vicino a lei, una donna che ha sofferto per la mia lontananza ma che, che quando me ne andai via di casa, mi diede dei soldi a tua insaputa, andando ad impegnare i suoi gioielli, quella donna che mi telefonava di nascosto per sapere se “mangiavo abbastanza”, a cui non importava se andassi con gli uomini o con le donne, e voleva solo che fossi in buona salute! Ma in questo momento sento solo la tua mancanza: l’istinto filiale viene prima della coscienza e una figlia femmina, nella regressione emotiva che si prova alla morte del padre, si sente sempre più vicina a lui, perché lo ha sempre amato, fin da piccola, in maniera esclusiva, tanto da esserne addirittura gelosa.
Io sono sempre stata tua figlia e tu mi hai voluto bene, lo so, ma non lo hai saputo esprimere, e qualche volta ti vergognavi di essere troppo affettuoso davanti agli altri: “comportamenti poco virili”, avrebbe potuto dire la gente, e tu ti bloccavi! Le tue effusioni mi sono mancate molto, ma io dò tutta la colpa a quei luoghi comuni che ci costringono a non essere noi stessi, ci impediscono di vivere una vita inautentica.
Io ho scelto di essere autentica, ed è per questo che io oggi non mi vergogno di essere donna, e sono orgogliosa di non farmi condizionare da “ciò che dice la gente”.
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Vi invitiamo comunque a segnalarci i racconti che pensate non debbano essere pubblicati, sarà nostra premura riesaminare questo racconto.
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